Nell’estate di ventinove anni fa, Riina era raggiante. «Giovanni, si sono fatti sotto. Insistiamo. Gli ho fatto un papello di richieste grande così». Sono parole di Riina e quel Giovanni è Giovanni Brusca, boss di San Giuseppe Jato, assassino di Falcone e mandante dell’omicidio del piccolo Di Matteo, figlio di Santino Di Matteo, uomo d’onore del clan di Altofonte il quale, arrestato dopo la strage di Capaci, aveva deciso di pentirsi. Brusca è stato appena scarcerato.
Uno dei killer più crudeli della mafia, autore di decine di omicidi nonché collaboratore di Riina nella fase stragista, è uscito dal carcere. «Se lo incontro non so che succede» ha detto Santino Di Matteo. Come dargli torto. Il punto è che la legittima indignazione non deve mai ottenebrare il ragionamento. Soprattutto nei tempi oscuri che stiamo vivendo, tempi di restaurazione anche per quel che concerne la lotta alla mafia. Qui nessuno chiede il perdono per Brusca. Perdonare sarà anche divino, ma siamo uomini e nessuno può costringerci a farlo. Io non perdono Brusca, non perdono Riina, non perdono Provenzano, non perdono chi ha trattato con la mafia dopo Capaci accelerando l’assassinio di Borsellino.
Non perdono ma difendo la legge sui pentiti. Ogni pentito, chi più chi meno, si è macchiato di tremendi delitti prima di pentirsi. Per caso erano uomini onesti i Salvatore Grigoli, assassino di Don Puglisi, i Gaspare Spatuzza, killer di Brancaccio, i Francesco Di Carlo, testimone chiave al processo Dell’Utri? Era un santo Buscetta, il boss che testimoniando al maxi-processo permise la condanna di centinaia di mafiosi?
Fa scalpore che colui che pigiò il telecomando a Capaci sia stato scarcerato grazie ad una legge voluta dal giudice che fece saltare in aria. Ma è la legge, ed è una legge da difendere. Brusca non è il primo pentito che esce di prigione dopo aver “parlato”. Qualcuno, oggi, vorrebbe fosse l’ultimo. O meglio vorrebbe che fosse l’ultimo boss ad uscire dopo aver vuotato il sacco (o parte di ecco). Esistono i collaboratori di giustizia ed esistono coloro che, forse senza neppure accorgersene, “collaborano” con le cosche rilanciando le loro richieste. Fu Brusca in persona a raccontare agli inquirenti quell’incontro con Riina dopo la strage di Capaci. «Giovanni si sono fatti sotto» disse il capo dei capi. Traduzione? “Lo Stato ci ha cercato, le stragi funzionano. Possiamo alzare il tiro”.
Se nel nostro ordinamento non ci fosse la legge sui pentiti voluta da Falcone, Brusca avrebbe mai raccontato quell’episodio? Sono immorali le scarcerazioni dei boss pentiti? Può darsi. Ma la morale lasciamola ai moralisti, chi combatte la mafia ha il dovere di essere pragmatico. Quanti omicidi sono stati evitati grazie ai pentiti? Quanti assassini sono finiti in cella grazie alle loro confessioni? Si ritiene che Brusca non abbia detto tutto. Probabile. Così come non disse tutto Buscetta. «Non mi chiedete chi sono i politici compromessi con la mafia perché se rispondessi, potrei destabilizzare lo Stato» disse Buscetta a Falcone.
E sempre Buscetta, nel 1999, a La Repubblica disse: «i collaboratori hanno perduto da tempo. Tutti, e soprattutto negli ultimi due anni, non hanno fatto altro che parlare male di loro». Ciò che avviene oggi. Attaccare Brusca è facile.
Accorgersi che alcuni lo stanno facendo per colpire il pentitismo, ovvero una delle armi principali in mano agli inquirenti, è più difficile. La riforma della legge sui pentiti era una delle richieste che Cosa nostra avanzò durante la trattativa. Chi oggi attacca i pentiti si posiziona, consapevolmente o meno, dalla parte dei boss. Di quei boss che non si pentono (vedi i fratelli Graviano) perché attendono che il solo dissociarsi dalla mafia, atto che non prevede alcuna confessione, potrà garantirgli sconti di pena. In tal senso l’attacco all’ergastolo ostativo – ovvero niente sconti per chi non si pente – rischia di esaudire una delle richieste contenute nel papello. La verità è che ci sono pentiti e pentiti. Dei collaboratori di giustizia che parlano di altri criminali importa poco o nulla. Al contrario i pentiti che osano menzionare politici o pezzi delle istituzioni vanno delegittimati affinché nessun altro si azzardi a fare altrettanto.
Fu Enzo Brusca ad uccidere materialmente il piccolo Di Matteo su ordine di suo fratello Giovanni. A raccontare i particolari macabri dell’assassinio fu Vincenzo Chiodo, il quale, insieme a Brusca junior strangolò il bambino prima di scioglierlo nell’acido. Enzo Brusca è stato scarcerato nel 2003 ma la cosa fece meno scalpore. Anche lui ha ottenuto uno sconto di pena per essersi pentito. Anche lui ha fornito agli inquirenti utili informazioni, ma a differenza del fratello, non ha parlato del papello, della Trattativa Stato-mafia e di un lussuoso orologio che sarebbe stato visto al polso di Berlusconi da Giuseppe Graviano. Nell’Italia della restaurazione c’è chi combatte affinché i pentiti si pentano non di aver sparato, ma di aver parlato troppo.
Il mio articolo di oggi per Il Fatto Quotidiano.